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La Scelta di Anne – L’Événement, Leone D’oro come Miglior Film
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La storia di Anne, una giovane donna che decide di abortire per completare i suoi studi e sfuggire al destino sociale della sua famiglia proletaria. La storia della Francia nel 1963, di una società che condanna il desiderio delle donne, e il sesso in generale. Una storia semplice e dura, che ripercorre il cammino di chi decide di agire contro la legge. Anne ha poco tempo davanti a sé, gli esami si avvicinano e il suo ventre si arrotonda…

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LETTERA DI ANNIE ERNAUX

Uscendo dalla sala di proiezione di l’Événement, ero molto commossa, non ho avuto altro da dire a Audrey Diwan che queste parole: «Hai fatto un film giusto.»

Giusto, cioè quanto più possibile vicino a quello che voleva dire per una ragazza scoprirsi incinta negli anni Sessanta, quando la legge vietava e puniva l’aborto. Il film non dimostra, non giudica, né tantomeno drammatizza. Segue Anne nella sua vita e nel suo mondo da studentessa, tra il momento in cui aspetta invano l’arrivo delle mestruazioni, e quello in cui la gravidanza è alle sue spalle, in cui «l’evento» ha avuto luogo.  Semplicemente – si fa per dire – è attraverso lo sguardo di Anne, i suoi gesti, il suo modo di comportarsi con gli altri, di camminare, i suoi silenzi, che avvertiamo il cambiamento improvviso prodotto nella sua vita, nel suo corpo che si appesantisce, affamato e scosso dalla nausea. Che entriamo nell’orrore indicibile del tempo che scorre e viene scandito in settimane sullo schermo, lo sgomento e lo sconforto per soluzioni che vengono meno, ma, anche – è molto chiara – la determinazione di andare fino in fondo. E, quando tutto si è concluso, sul volto sereno e luminoso di Anne, in mezzo agli altri studenti, si legge la certezza di un futuro di nuovo aperto.

Non posso immaginare nessuno al posto di Anamaria Vartolomei per impersonare Anne, e, in un certo senso, me stessa a ventitré anni, con una veridicità e una giustezza che sconvolgono i miei ricordi.

Ma, ai miei occhi, il film non avrebbe potuto essere del tutto giusto se avesse occultato le pratiche alle quali le donne hanno fatto ricorso prima della legge Veil. Audrey Diwan ha il coraggio di mostrarle nella loro realtà brutale, il ferro da calza, la sonda introdotta nell’utero da una «fabbricante di angeli». Perché è solo così, nella sensazione di disturbo suscitata da queste immagini, che possiamo prendere coscienza di quanto è stato inflitto al corpo di quelle donne e di quello che significherebbe tornare indietro.

Vent’anni fa, alla fine del mio libro, scrivevo che quanto mi era successo durante quei tre mesi del 1964 mi sembrava «come un’esperienza totale», del tempo, della morale e del proibito, della legge, «un’esperienza vissuta da un capo all’altro attraverso il corpo». È questo, insomma, che Audrey Diwan ci consente di vedere e di sentire nel suo film.

INTERVISTA CON AUDREY DIWAN

Cosa l’ha spinta ad adattare L’EVENTO, il romanzo di Annie Ernaux?

Conosco da molto tempo l’opera di Annie Ernaux, la forza del suo pensiero e il suo stile asciutto. Ma ho letto tardi L’evento. Sono rimasta colpita dalla differenza tra una procedura etichettata come aborto clandestino, e la realtà concreta di questo processo. Ho pensato subito al corpo di questa giovane donna, a quello che ha dovuto attraversare, a partire dal momento in cui le è stato detto che era incinta. E il dilemma che ha dovuto affrontare: abortire rischiando la sua vita, o rinunciarvi e sacrificare il suo futuro. Il corpo o la mente. Non avrei mai voluto essere al suo posto. Tutti questi argomenti venivano affrontati in maniera concreta nel libro. Ho cercato di tradurli in immagini, di darne una definizione carnale che permettesse di fare un’esperienza fisica di questo racconto. Un viaggio che spero sia possibile al di là dell’epoca e a prescindere dal sesso.

Ha parlato con Annie Ernaux di come avrebbe adattato il romanzo?

Fin dall’inizio. Volevo rispettare il libro e, allo stesso tempo, trovare me stessa attraverso di esso, un percorso scarno ed essenziale. Abbiamo trascorso insieme una giornata durante la quale Annie Ernaux ha accettato di rivivere nel dettaglio quel periodo. Ha chiarito i passaggi più oscuri del testo affinché potessi farmi un’idea più precisa di quello che era il contesto politico. Affinché capissi la paura che pervadeva quelle donne nel momento in cui decidevano di percorrere quella strada. Quando Annie Ernaux mi ha parlato del momento esatto dell’aborto, gli occhi le si sono riempiti di lacrime, ricordi di quello che la società ha imposto alla giovane donna che era. Ero scossa dalla vivacità di questo dolore. Ci ho pensato spesso mentre scrivevo. In seguito le ho fatto leggere le diverse stesure della sceneggiatura, mi ha aiutata a tracciare il percorso più onesto. Un modo di pensare che ha guidato tutta la produzione. Ogni luogo, la scenografia, i costumi, il trucco hanno rispettato quest’orientamento. D’altronde, alla vigilia delle riprese Annie Ernaux mi ha inviato questa frase di Čhekov: Siate giusti, il resto verrà da sé.

Qual è il senso di adattare oggi questo romanzo?

Ho la sensazione che quest’argomento verrà ripreso regolarmente, e questo mi sconvolge nel profondo. Non sono sicura sia un tema che possa essere trattato sistematicamente da chi decide di fare un film d’epoca, di trattare una situazione sociale o politica passata. Quando uso la parola «passata», lo dico a prescindere da tutti quei Paesi dove la legge, ancora oggi, non consente l’aborto. L’ÉVÉNEMENT parla di un momento della nostra storia che è stato poco rappresentato. Ma io credo che un film cinematografico non possa limitarsi al suo soggetto, altrimenti gli si dovrebbe preferire un documentario. Con L’ÉVÉNEMENT avevo voglia di esplorare delle sensazioni, di trattare quella suspense intima che attraversa tutto il racconto. I giorni che passano, l’orizzonte che si restringe e il corpo come una prigione. E poi non si tratta solo dell’aborto. Anne, il mio personaggio principale, è una disertrice sociale. Viene da una famiglia proletaria, è la prima della sua famiglia ad iscriversi all’università. L’ambiente universitario è più borghese, i codici e la morale più severi. Anne passa da un mondo all’altro celando un segreto che potrebbe mettere fine a tutte le sue speranze. Avere vent’anni vuol dire di per sé cercare il proprio posto nel mondo. Come farlo quando il proprio futuro è messo a rischio in ogni istante?

Come ha scelto Anamaria Vartolomei, che è in tutte le scene del film, e spesso in primo piano?

Anamaria Vartolomei aveva, fin dai primi provini, la dimensione fisica necessaria al ruolo, qualcosa che rientra nella dimensione del mistero e della potenza. Ha una pelle diafana, uno sguardo molto interiorizzato e, allo stesso tempo, molto aperto sul mondo, difficile da decifrare e accattivante allo stesso tempo. Trasmette molto con poco, è minimalista nel suo approccio alla recitazione. Sono molto sensibile a questa delicatezza. Abbiamo cominciato definendo il personaggio attraverso il corpo, la postura. Le ripetevo, “Anne è un soldato”, spalle larghe, piedi ben piantati a terra, lo sguardo fiero, pronto ad affrontare il mondo. Era inoltre necessario che esprimesse il suo status di disertrice. Quello che vuol dire sentire continuamente gli occhi degli altri, della società, sulle proprie spalle. Anamaria ha costruito con intelligenza l’armatura di cui il suo personaggio aveva bisogno.

Avete parlato molto insieme di aborto?

Sì, di come sia l’evento che trasforma Anne, la determina. Durante tutto il film assistiamo a uno scontro tra il suo corpo e la sua testa. Accettare la sofferenza di uno per la salute dell’altro. C’era in questo un pensiero verticale, che mi ha portata a riflettere molto sul modo in cui la protagonista si definisce, con cui giunge a farsi valere. Ci ho visto anche l’opportunità di raccontare l’ambizione, cosa voglia dire credersi capace di diventare scrittrice quando non è quello per cui si è predestinati. Che cos’è che fa in modo che questa giovane donna si conceda il diritto di pensare, di formulare un giorno questa frase: voglio scrivere”? Cosa comporta questo a livello sociale? Il mio personaggio, che sceglie l’aborto e scrive il seguito della sua storia. È un atto essenziale.

Attorno ad Anne ci sono dei ragazzi. Come li ha caratterizzati?

Il ruolo degli uomini, giovani e meno giovani, è cruciale nel percorso di Anne. Non volevo esprimere alcun giudizio sui miei personaggi, ma inserirli tutti al loro posto: un riflesso della loro epoca. Quando il personaggio di Jean, uno studente amico di Anne (interpretato da Kacey Mottet-Klein), tenta di baciarla con la forza e dice la frase: “In fondo non rischiamo nulla, sei già incinta” avverto questa profonda ignoranza dell’altro sesso nella Francia degli anni Sessanta. All’epoca, la responsabilità della gravidanza ricadeva spesso sulla persona che rimaneva incinta, e su di lei soltanto. I medici con cui parla Anne non hanno tutti la stessa opinione sull’aborto. Anche se tra di loro non ci sono degli eroi, dei militanti che si oppongono a una legge cieca, nessuno condanna l’atto in sé. I personaggi del mio film fanno quello che possono in funzione di quello che sanno e comprendono.

Perché ha scelto un formato 1.67 per girare questa storia?

Questo formato stretto mi ha permesso di aggirare l’idea della ricostruzione storica per concentrarmi sull’essenziale. Ci ho visto la possibilità di scrivere il mio racconto al presente. La cinepresa diventa un tutt’uno con l’attrice. Io e Laurent Tangy, il direttore della fotografia, ci siamo ripetuti spesso che dovevamo essere Anne, non guardarla. Laurent e Anamaria hanno lavorato molto per camminare con lo stesso passo, per trovare un ritmo comune affinché i movimenti della macchina sposassero quelli di lei con una delicatezza tale da far dimenticare la macchina stessa. Volevamo ad ogni costo essere alla stessa altezza del personaggio, vedere quello che vede lei, concentrarci su quello che lei guarda. Più va avanti, più il suo cammino diventa tetro. Abbandona un sentiero sicuro per intraprendere un cammino pieno di ombre. E così la cinepresa si mette alle sue spalle, scoprendo insieme a lei, in tempo reale, quello che si nasconde dietro ciascuna porta.

Possiamo dire che il suo è un film immersivo?

Era questo lo scopo. Tutta la troupe ha lavorato per mettere in pratica quest’idea: far convergere l’aspetto interiore con quello esteriore, entrare sempre più nella testa della protagonista a mano a mano che la storia va avanti. In tal senso, la componente sonora ha giocato un ruolo fondamentale perché ci troviamo tanto nei pensieri di Anne quanto in un rapporto abbastanza diretto con gli altri. La parte di Anamaria si basava su diversi monologhi interiori accompagnati dalla musica. Anche se non credo che il termine «musica» sia quello più adatto. Ho avuto la possibilità di lavorare con Evguéni e Sacha Galperine. Trovo le loro composizioni molto mentali. Non volevamo cercare una melodia che accompagnasse o definisse un’emozione, ma trovare delle note, degli accordi minimalisti che fossero come delle parole, delle frasi interiori.

Anche il respiro è un elemento sonoro molto importante…

Effettivamente è un film incentrato molto “sul respiro”, sempre con l’obiettivo di immergersi nell’intimità del personaggio. Tutto ciò che viene esalato tra le righe attraverso quest’aria che passa e permette una trascrizione carnale delle emozioni. Quello che Anne trattiene quando è in apnea, il momento in cui il suo respiro si fa corto. Che vuol dire rimanere senza fiato? Che vuol dire respirare?

Oltre al respiro c’è un altro elemento sonoro molto presente: il silenzio. Qual è il suo significato?

Il silenzio è il soggetto del film, il suo punto di partenza. Nulla deve essere detto o capito. Per tutta la durata del film non viene mai pronunciata la parola “aborto”. Quella che Anne vive è una sofferenza proibita, personale, una lotta interiore. È una sofferenza che non deve far rumore perché, altrimenti, oltre a soffrire rischia di essere condannata dalla giustizia.

La sofferenza, fisica e morale, è al centro delle scene più scioccanti. Come le ha affrontate?

Non voglio dire troppo delle scene più dure del film. Non ho mai cercato lo shock. Ma mi sembrava fondamentale non distogliere lo sguardo nei momenti più duri. E, soprattutto, accettare di farli vedere per intero, senza tagli. Perché non volevo delle sequenze teoriche, dove si capisce cosa succede al personaggio senza viverlo.

Il concetto di tempo scandisce tutto il film, che si svolge come una sorta di conto alla rovescia. Perché ha scelto di indicare sullo schermo lo scorrere delle settimane?

L’opera originale si basa su un diario. Ho pensato spesso a questa frase che ho letto nel libro: Il tempo aveva smesso di essere un insieme di giorni da riempire con lezioni e mostre, era diventato questa cosa senza forma che cresceva dentro di me. Quest’urgenza la avverto per contrasto: tra il tempo del mondo, quello degli studenti senza pensieri, che si godono l’alba, e quello di Anne, che è una corsa contro il tempo.

Ciò che colpisce di questo film è come si concentri sul tema dell’individuo che deve poter disporre liberamente di sé stesso, anima e corpo. È per dedicarsi completamente a quest’argomento che non c’è una storia d’amore, perché la protagonista non è innamorata?

 Il mio film non parla di amore, ma di desiderio. L’altro grande soggetto del film, per me molto importante, è il piacere. Anne rivendica il diritto al piacere. Non mi piace l’idea secondo cui il piacere di una donna sia accettabile solo in base ai sentimenti. Da questo punto di vista, nella storia di Anne c’è una pulsione gioiosa e contemporanea. A casa sua, tanta rabbia quanta invidia.

Quello che più conta, nel suo film, è la libertà?

La libertà al cinema per me è far esplodere la cornice, esercizio ancora più stimolante perché la mia era molto stretta. La storia di Anne crea come una richiesta d’aria. Per questo era molto importante che le ultime parole del film fossero: “prendete le vostre penne”, e che sullo sfondo si sentisse ancora il rumore della penna sulla carta. Che fosse lei stessa a scrivere il seguito della sua storia, senza permettere a nessuno di imporgliela.

INTERVISTA CON ANAMARIA VARTOLOMEI

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Intervista con Anamaria Vartolomei

Come è diventata Anne, la protagonista di L’ÉVÉNEMENT?

Tutto è cominciato dai provini con Audrey Diwan e la direttrice del casting, Elodie Demey. Ho interpretato alcune scene chiave: una scena all’università, quella in cui scopro di essere incinta e una scena di socializzazione, di rimorchio tra gli studenti. Queste scene erano rappresentative dei principali stati emotivi attraverso i quali passa il mio personaggio. Passare dall’una all’altra è stato di per sé un lavoro molto impegnativo.

In che modo il romanzo di Annie Ernaux, di cui il film è un adattamento, l’ha aiutata per il suo lavoro?

Sono stata particolarmente ispirata dallo stile di scrittura del romanzo. È molto brusco, molto crudo, senza fronzoli e molto preciso. In questo modo ti mette davanti alla realtà dei fatti. Con la sua determinazione, Annie Ernaux è una scrittrice che ha contribuito molto a mettere in risalto la condizione delle donne, si impegna affinché possano essere libere e coscienti di sé allo stesso tempo. Per quanto riguarda la protagonista di L’ÉVÉNEMENT, questo viene espresso mostrando il suo desiderio, e il fatto che non lo nasconda. Si accetta completamente. Il romanzo mi ha anche fortemente ispirata per comprendere le sensazioni fisiche che vive il mio personaggio, come il dolore, ad esempio.

Come si è preparata al ruolo insieme ad Audrey Diwan?

Abbiamo parlato molto, scambiato opinioni. Audrey mi ha chiesto di guardare diversi film per costruire il mio personaggio, come base da cui partire. Tra questi film c’era anche ROSETTA dei fratelli Dardenne, al quale ci siamo ispirati per il cognome del mio personaggio. Lo chiamavamo: «il piccolo soldato». IL FIGLIO DI SAUL di László Nemes, per i suoi viaggi allucinatori, la dimensione realistica e pesante di quello che vive il personaggio. Ma anche IL CIGNO NERO di Darren Aronofsky, per parlare del rapporto tra madre e figlia. Non si trattava tanto di ispirarsi agli altri quanto di confrontarsi con loro. E durante le riprese, le nostre discussioni mi tornavano alla mente. Per tutto il tempo aveva questa frase in testa: Anne è un soldato. Va in guerra. Ha degli alleati che perde durante il suo cammino. Finisce a terra. Incassa dei colpi, ma si rialza. Va avanti con ostinazione e tenacia, senza cedimenti. Anne non abbassa mai lo sguardo. Guarda sempre avanti.

Per rappresentare su schermo questa determinazione incrollabile ed essenziale, l’inquadratura è molto stretta, la macchina da presa sembra essere sempre a pochi centrimetri dal suo personaggio. Non l’abbandona mai. Come avete fatto lei, Audrey Diwan e Laurent Tangy, il direttore della fotografia, a mettere in pratica un tale lavoro di precisione?

Eravamo un solo corpo, un’entità a tre teste. Audrey cercava una dimensione viscerale. Laurent era tutto il tempo dietro di me, sulla mia spalla. Sulla mia pelle, su ogni mio minimo movimento. Allo stesso tempo, è un film sulla pulsione della vita.  Più siamo vicini alla protagonista, più le sensazioni arrivano immediate allo spettatore, in sintonia con lei. Anche il suono è stato fondamentale in questo senso. Audrey voleva che sentissimo innanzitutto tutto ciò che circonda Anne, cioè la vita universitaria; più si va avanti, più la solitudine del mio personaggio è forte, più il suono cambia. Si perdono gli altri, diventa più interiorizzato. È un’idea poetica.

Anne è talmente concentrata che non sembra avere il tempo per sorridere.

Abbiamo parlato molto con Audrey di questa mancanza di sorrisi. Quando si è molto concentrati, è raro che si sorrida. Ma, allo stesso tempo, Audrey voleva che quando c’era un sorriso fosse molto forte. Che venisse messo in risalto, proprio perché raro. Per Anne l’essenziale passa dallo sguardo più che dalla bocca. Attraverso lo sguardo dovevo far arrivare la solitudine e la paura. Anne non ha il tempo per sorridere, ha a mala pena la possibilità di riprendere fiato. E quest’aspetto è stato sottolineato dal sonoro.

Cioè?

Abbiamo usato il suono come uno strumento, continuamente. Ad esempio, durante una scena, dovevo esprimere allo stesso tempo la paura, il dolore fisico e la forza di volontà. Per aiutarmi, su iniziativa di Audrey, il fonico mi ha messo un auricolare che riproduceva un ticchettio continuo. Ero come una bomba ad orologeria. E più andavo avanti, più il suono di questo metronomo diventava forte. Questo mi metteva in uno stato di massima irritazione. Avevo le vertigini. Ha influenzato molto il mio modo di camminare, e ha anche plasmato le espressioni del mio volto in quelle scene.

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La storia si svolge negli anni Sessanta. Come ci si trasforma in una ragazza dell’epoca?

Grazie alle prove. Negli anni Sessanta c’era un linguaggio diverso, una musicalità specifica. Con le mie colleghe, Luàna Bajrami e Louise Orry Diquerro, ci siamo allenate soprattutto a parlare più lentamente, in modo più articolato. Ovviamente questa lentezza ci ha catapultate in un mondo diverso da quello di oggi.

Cosa le resta, a livello personale, di quest’esperienza?

Audrey mi ha permesso di sperimentare uno stato di abbandono vertiginoso. Grazie a lei non ho avuto dubbi su quello che dovevo fare, anche quando le scene mi facevano paura. È stata mia alleata. Ci scambiavamo continuamente indicazioni. Questo film mi ha insegnato ad osare e, allo stesso tempo, ad essere disponibile. È per questo che ho avuto la sensazione di raggiungere un certo tipo di libertà durante le riprese. Una libertà che mi sembrava essere in linea con il testo di Annie Ernaux.

INTERVISTA A LAURENT TANGY  

Com’è iniziato il suo lavoro come direttore della fotografia di L’ÉVÉNEMENT?

Con Audrey, il nostro lavoro di ricerca si è basato su una semplice riflessione: voleva trovare la nota giusta senza tradire il testo di partenza. Dovevamo mettere sullo schermo i sentimenti e la lotta di questa donna alla ricerca dell’emancipazione e della libertà in un mondo retto da regole che schiacciano le donne. Inquadrature strette e piani sequenza hanno consentito allo spettatore un’immersione in apnea nella vita della protagonista. Condividiamo dei riferimenti fotografici come Jacob Holdt o Todd Hido.

Cosa implicava per l’immagine questa fotografia immersiva?

 È stato necessario usare la cinepresa a spalla per sposare i movimenti della protagonista, le sue reazioni, il suo senso di urgenza. Le luci dovevano lasciare spazio all’inquadratura per seguire Anamaria in tutti i suoi spostamenti, senza alcun taglio.

Ci parli della scelta dell’inquadratura, una scelta molto particolare?

È stata una scelta di Audrey, prima ancora che io la raggiungessi sul set. Voleva concentrarsi sul suo personaggio, che non fosse un «elemento» della scenografia, ma il centro. In questo modo lo spettatore vive con lei ogni evento, senza anticipazioni. Può essere sorpreso in ogni momento dall’apparizione nell’inquadratura di altri personaggi o di elementi imprevedibili. L’identificazione con i sentimenti della protagonista si fa in questo modo spontanea.

Questa scelta stilistica richiede una complicità particolare, un’osmosi, con l’attrice che interpreta il ruolo principale, Anamaria Vartolomei. Come avete lavorato insieme?

Il lavoro con Anamaria è cominciato sul set e ho impiegato qualche giorno a capirla, a guadagnarmi la sua fiducia, e a vivere gli eventi con lei. Le sono stato sempre molto vicino, sui suoi passi, nel suo respiro. La sfida di partenza era quella di trovare il nostro ritmo a due, come un passo di danza che facesse dimenticare la presenza della cinepresa.

Il lavoro sulla luce richiede una visione particolare, perché gli anni Sessanta vengono sempre rappresentati come molto colorati al cinema, e spesso metterli in scena vuol dire trasportare un film in una ricostruzione un po’ museale, non sempre viva. Come ha fatto per evitare queste insidie?

Non volevamo trasmettere l’idea di una ricostruzione storica, perché contraria alla filosofia del progetto. La sfida era crederci, esserci senza farne qualcosa «alla maniera di quel tempo», perché questo avrebbe portato ad una distanza emotiva nella narrazione. Abbiamo scelto una luce contemporanea. Gli anni Sessanta li rivediamo nella scenografia, nei costumi e nelle parole dei personaggi, non nelle inquadrature.

Qual è stata allora la gamma di colori che ha scelto?

Audrey voleva dei colori freddi, blu all’inizio, e un’evoluzione verso dei toni più caldi, rossi, per accompagnare l’urgenza e l’impasse nella quale si ritrova la protagonista, Anne.

E la correzione colori?

La correzione colori è stata l’evoluzione del nostro lavoro sul set. Rimanere «veri» seguendo i nostri propositi. Essere «onesti» come piace dire a Audrey. Persino essere crudi, quando necessario.

Ha dovuto lavorare anche su un’intensità specifica per ottenere quella luce notturna negli esterni, come si vede nel film. Come descriverebbe questa luce?

Allo stesso tempo volevamo mantenere la veridicità negli esterni. Abbiamo quindi lavorato per esprimere l’emozione dell’ambiente percettivo di Anamaria senza cercare di renderlo spettacolare. L’immagine doveva risultare non naturalista, ma naturale, insistendo leggermente sulla saturazione dei contrasti.

E per la luce degli interni?

Per quanto riguarda gli interni, partivo dallo stesso concetto: restare fedele all’ambiente e alla storia, sostenere la realtà delle fonti di luce esistenti, un’ampolla, un riverbero… forzare leggermente questa fonte di luce vera con lo scopo di mettere in risalto le emozioni di Anne per comunicarle meglio.

clicca per guardare il trailer

 

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CAST ARTISTICO

ANNE                                                Anamaria VARTOLOMEI

JEAN                                                  Kacey MOTTET-KLEIN

HÉLÈNE                                            Luàna BAJRAMI

BRIGITTE                                         Louise ORRY-DIQUERO

OLIVIA                                              Louise CHEVILLOTTE

PROFESSOR BORNEC                  Pio MARMAÏ

GABRIELLE                                     Sandrine BONNAIRE

CLAIRE                                             Leonor OBERSON

RIVIÈRE                                           Anna MOUGLALIS

GASPARD                                         Cyril METZGER

JACQUES                                          Éric VERDIN

LAËTITIA                                         Alice DE LENCQUESAING

LISE                                                   Madeleine BAUDOT

DOTTOR RAVINSKY                     Fabrizio RONGIONE

MAGDA                                            Isabelle MAZIN

MAXIME                                           Julien FRISON de la Comédie-Française

PATRICK                                          Edouard SULPICE

CÉLINE                                             Leïla MUSE

DOCTEUR GUIMET                        François LORIQUET

POMPIERE                                       Louis BÉDOT

STUDENTESSA CABINA TELEFONICA Emeline WEICKMANS

STUDENTE DISCOTECA FALUCHE        Gabriel WASHER

STUDENTESSA MERCATINO                  Lomane de DIETRICH

CAST TECNICO

PRODOTTO DA                                Édouard WEIL e Alice GIRARD

REGISTA                                           Audrey DIWAN

SCENEGGIATORI                           Audrey DIWAN e Marcia ROMANO con la partecipazione di Anne BEREST

FOTOGRAFIA                                  Laurent TANGY – AFC

MONTAGGIO                                  Géraldine MANGENOT

SCENOGRAFIA                                Diéné BERETE

COSTUMI                                         Isabelle PANNETIER

TRUCCO                                           Amélie BOUILLY

PARRUCCHIERA                             Sarah MESCOFF

ASSISTENTE ALLA REGIA           Anaïs COUETTE

CASTING                                            Élodie DEMEY – A.R.D.A

SEGRETARIA DI EDIZIONE          Diane BRASSEUR

REGIA                                               Gary SPINELLI

CAPO ELETTRICISTA                    Olivier MANDRIN

CAPO MACCHINISTA                    Thomas VALAEYS

FONICO                                            Antoine MERCIER

Philippe WELSH

MONTAGGIO SONORO                  Thomas DESJONQUÈRES

MONTAGGIO                                              Marc DOISNE

DIRETTORE DI PRODUZIONE                 Monica TAVERNA

DIRETTORE DI POST-PRODUZIONE      Mélanie KARLIN

MUSICHE ORIGINALI                               Evgueni e Sacha GALPERINE

 

PARTNER FINANZIARI

 

Una produzione                                 RECTANGLE PRODUCTIONS

 

In co-produzione con                         FRANCE 3 CINÉMA

WILD BUNCH

SRAB FILMS

 

Con la partecipazione di                    CANAL+

CINÉ+

FRANCE TÉLÉVISIONS

 

Con il sostegno di                              CENTRE NATIONAL DU CINÉMA ET DE L’IMAGE ANIMÉE

 

Con il sostegno di                              LA RÉGION ÎLE-DE-FRANCE

LA RÉGION NOUVELLE-AQUITAINE

MAGELIS ET LE DÉPARTEMENT DE LA CHARENTE EN PARTENARIAT AVEC LE CNC

 

In associazione con                            PALATINE ÉTOILE 18

COFINOVA 17

 

Prodotto con il sostegno di            COFINOVA DÉVELOPPEMENT 16

 

Con il sostegno di                              PROCIREP

 

Distribuzione in Francia                    WILD BUNCH

 

Vendite internazionali                       WILD BUNCH INTERNATIONAL

 

© 2021 RECTANGLE PRODUCTIONS – FRANCE 3 CINÉMA – WILD BUNCH – SRAB FILMS

Visa d’exploitation N°153 108

 

©MANUEL MOUTIER / RECTANGLE PRODUCTIONS

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Patrizia Gallini
I colori, l’aspetto e i modi sono da nobildonna veneziana, ma le sue origini sono piemontesi. Ha il sorriso affettuoso e sereno di chi si appresta a offrirti il tè con i pasticcini, ma in realtà sta discutendo di business con la fermezza di un panzer. Il suo “buen ritiro” è un antico mulino nel torinese, quando non è “occupato” dai suoi quattro nipotini. Di lavoro fa la P.R. , e naturalmente è il boss della sua agenzia. Per passione frequenta gli chef stellati, ama leggere e segue tantissimi spettacoli teatrali e, naturalmente, ci rende partecipi dei suoi incontri attraverso le nostre pagine.
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